Svuotamento demografico della Tuscia, una riflessione di Francesco Mattioli

VITERBO – Riceviamo da Francesco Mattioli e pubblichiamo: “Il fenomeno dello spopolamento urbano è una caratteristica del XXI secolo; ovviamente non riguarda tutti i Paesi e tutte le regioni di un Paese, ma si lega alle dinamiche del cambiamento degli stili di vita, specie nel mondo occidentale. Ad esempio, se è vero che il web e lo sviluppo dei mezzi di comunicazione ci fanno superare molti ostacoli fisici tradizionali, d’altra parte si preferisce abitare nella metropoli e nel suo immediato hinterland perché è lì che si tocca con mano la crescita ed è lì che si colgono le nuove opportunità sociali, economiche e culturali.  Va inoltre considerato che molte città si popolano sotto la spinta di fenomeni migratori e di dinamiche demografiche di natura globale, che ne snaturano talvolta persino l’identità. Londra oggi è un crogiuolo etnico dove non riesce più a battere il cuore della cultura british di una volta; su Shangai, Tokio e Chongqing si sta riversando mezza Asia; Milano e Berlino, persino più di Parigi, stanno diventando ormai città “europee”e forse addirittura “globali”.

La “trafila” dello spostamento sul territorio che in passato si riassumeva in una sorta di cursus honorum, dal paese alla città e della città alla metropoli (negli anni ’50 e ’60 si diceva che andare a lavorare o a studiare a Roma, per i viterbesi era una sorta di “svegliabambocci”) è saltata completamente.

Tanto per dirne una, difficile credere che un Marco Mengoni sarebbe diventato quel che è restando a vivere nella pur bellissima Ronciglione…

Oggi i figli della borghesia viterbese non vanno neanche più a  studiare a Roma, saltano direttamente a Bologna o a Milano, e magari se ne vanno a Londra, a Parigi, a Berlino, finanche a  Los Angeles, città ormai del tutto internazionali dove puoi trovare un tuo spazio, grande o ristretto che sia, avendo la sensazione – non necessariamente reale  – di vivere fisicamente e psicologicamente “al centro del mondo”.

Ma c’è dell’altro. Vorrei citare il caso di Pomezia. Oggi conta un  numero di abitanti pressoché pari a quello di Viterbo, circa sessantaduemila unità. Nata negli anni Trenta a seguito del recupero dell’hinterland romano e poi ricompresa nelle competenze della  Cassa del Mezzogiorno, all’inizio degli anni ’50 contava circa seimila abitanti, saliti a quasi quarantamila negli anni ’80, quando divenne polo industriale privilegiato del circondario romano, per poi crescere ancora. In genere l’industrializzazione attira abitanti; ma anche la favola di Pomezia sta terminando, essendo totalmente legata all’industria:  se questa recede o cambia fisionomia,  non c’è una tradizione agricola o turistica  a sopperire al cambiamento.  Dopo il boom della seconda metà del XX secolo, oggi Pomezia è comparabile a Viterbo, anzi la supera seppur di poco, per numero di case inabitate (il 22%).

La questione quindi non è solo legata alle dinamiche dello sviluppo, ma anche ad altre variabili di carattere sociale e  culturale.   Ad esempio, è determinante la pesante crisi della natalità che non  solo riduce il numero complessivo degli abitanti, ma tende a trasformare – nel bene e nel male – anche la composizione antropologico-culturale della società italiana,  a partire da un invecchiamento medio della popolazione residente.   La crisi della natalità in Italia deriva da un miscuglio di motivazioni: da una cattiva interpretazione della famiglia e dei rapporti di coppia alla logica consumistica della vita privata,  dalla insufficienza di quei servizi sociali che sono a supporto della famiglia ai problematici rapporti con la Scuola, per giungere poi all’indefinito futuro che attende le nuove generazioni.

Infine, si consideri la crisi dei centri storici, concepiti per un altro vivere, sempre più inadeguati alle esigenze abitative di oggi e  quindi destinati  a spopolarsi fino a pesare sul computo complessivo della percentuale di abitazioni vuote, che in centro possono triplicare o quadruplicare le  percentuali delle periferie.  Difficile invertire il trend; semmai si può pensare che, in certi luoghi turisticamente attraenti, si possa sviluppare il fenomeno delle seconde case, che tuttavia è per definizione di tipo periodico e intermittente (a ottobre e a maggio anche Cortina langue…).

Il grido d’allarme sullo spopolamento dei territori periferici, quello che ad esempio proviene da tanti piccoli centri della Tuscia, va ascoltato, certo; si possono progettare e implementare provvedimenti nel tentativo di opporsi alle tendenze in atto, ad esempio si può immaginare un futuro migliore per una Viterbo rivoluzionata completamente come polo turistico-culturale in grado di attirare visitatori, operatori e magari abitanti per dodici mesi all’anno (un progetto fascinoso, quanto improbo visto come vanno da noi certe cose…). Ma non si può fermare il tempo, non si può mutare il vento – come recita una nota canzone degli anni sessanta – e quindi occorre rendersi conto che stiamo vivendo un cambiamento epocale, anche demografico, per di più a ritmi sempre più rapidi. Non  necessariamente un cambiamento  migliore, ciascuno lo può valutare come crede: qualcuno attratto da  nuove strade, altri a rimpiangere una comfort zone del passato.   Ma occorre prendere atto che come l’Uomo ad un certo punto uscì dalle caverne e costruì città cambiando i suoi stili di vita, così  oggi può decidere di abbandonare certi luoghi urbani per vivere in un altrove diverso, che esprime la sua collocazione in un mondo che non è già più quello di appena vent’anni fa”.

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