“Ti amo da morire”, il nuovo romanzo di Rino Salvati

di WANDA CHERUBINI-

VITERBO – “Ti amo da morire” è il nuovo romanzo di Rino Salvati. Un noir, che si legge tutto d’un fiato. Abbiamo posto all’autore qualche domanda in merito a questo suo lavoro.

Come nasce l’idea di questo libro? “Il nucleo originale del racconto è un’immagine, una corsa notturna in una mitica Citroen 2 CV Charleston, episodio che nella versione finale del romanzo si trova poco prima dell’epilogo. Sono partito da lì, chiedendomi chi fosse alla guida e quali avvenimenti lo avessero condotto a quell’istante. Luca Guerra è nato così, prendendo in prestito senza permesso alcuni dei miei ricordi e il nome di un ex collega di tanti anni fa. Mentre correvamo lungo la Palombarese deserta, illuminata quasi esclusivamente dai fari a lanterna del Charleston, mi ha raccontato di come aveva perso il lavoro, dei suoi amici, dei guai in cui si era ficcato e della ragazza che amava. Da quella “conversazione” è nato “Ti amo da morire”.

É un romanzo noir ambientato a Tivoli, in periferia, che si legge tutto d’un fiato, vero? “L’ambientazione del romanzo è la valle della Tiburtina, il posto in cui ho passato la giovinezza e di cui ho cercato di ricreare ambienti e suggestioni. Molti dei luoghi descritti sono reali e chi ha familiarità con la zona senza dubbio li riconoscerà, altri che oggi non esistono più li ho ricostruiti grazie ai ricordi, altri ancora invece li ho creati partendo da zero. Uno di questi rappresenta un omaggio a un autore cui sono molto legato, l’americano naturalizzato canadese William Gibson, il padre del cyberpunk, ma lascio ai lettori il compito di scoprire di quale si tratta. Volevo rappresentare un ambiente normale, non particolarmente degradato o violento, una provincia simile a tante altre che risultasse familiare a qualunque lettore. Ma ogni luogo ha le sue zone d’ombra ed è in quest’oscurità, che sfioriamo ogni giorno senza notarla, che si sviluppa la trama”.

Ci sono continui flashback che ci riportano al passato per comprendere i personaggi vero? “Ho fatto mio il motto di Stephen King: show, don’t tell. Cerco sempre di fare in modo che siano i personaggi stessi a raccontarsi, ognuno con la sua voce, i suoi comportamenti e le sue idiosincrasie. Presto molta attenzione alla comunicazione non verbale, i gesti che accompagnano i dialoghi possono essere assai più rivelatori delle parole, e dato che mi piace cominciare le mie storie in media res, con l’azione già iniziata, spesso utilizzo i flashback per mostrare eventi passati. Alcuni di questi sono scritti al presente e resi in uno stile grafico particolare, per un motivo che alla fine verrà svelato. Questa tecnica ha anche il vantaggio di tenere alta la tensione, dato che consente di centellinare le rivelazioni senza ingannare il lettore. La trama di “Ti amo da morire” è un complesso gioco a incastro in cui ogni particolare ha la sua precisa collocazione in vista del colpo di scena fiale”.

E’ un romanzo facile da leggere, è questo il tuo stile? “Il mio stile potrebbe essere definito “visuale”. Curo moltissimo i dettagli, tanto che spesso sono questi ultimi a caratterizzare personaggi e luoghi. Non amo le descrizioni lunghe e articolate in stile ottocentesco, trovo che appesantiscano la narrazione senza apportare reali benefici. Si tratta, sia chiaro, di un mio parere personale. Preferisco di gran lunga “suggerire” con brevi pennellate, lasciando al lettore la possibilità di visualizzare la scena nel modo che preferisce. Anche in questo caso devo molto a William Gibson e alla sua antologia “La notte che bruciammo Chrome”. Quei racconti letti alla fine degli anni ’80 mi hanno aperto un mondo, facendomi capire in che modo volevo scrivere.
Il tuo stile è quello dei dialoghi? “I dialoghi caratterizzano i personaggi più di qualsiasi descrizione. Esiste un modo migliore di presentare qualcuno che sentirlo chiacchierare, urlare, imprecare o lamentarsi? La cosa più emozionante, per quanto mi riguarda, è il fatto che spesso prendano direzioni che non avevo preventivato, sorprendendo me per primo. Una mia amica autrice di recente ha pubblicato un romanzo basato interamente sui dialoghi, un genere definito “breathless”, esperimento che io ho tentato più in piccolo scrivendo un racconto come fosse una chat di Messenger. I dialoghi danno respiro al testo e, se funzionali al racconto, lo fanno andare avanti come una freccia. Non è facile però renderli credibili, in quanto un dialogo scritto segue regole diverse da uno parlato. Ciò che funziona alla grande su una pagina non sempre rende altrettanto su uno schermo o nella vita reale, e viceversa. Io spero di essere riuscito a rendere vivi e tridimensionali i personaggi. Sarebbe una grande soddisfazione per me”.

Hai in vista la stesura di altri libri? “Sono molto lento nella stesura, sia perché ho poco tempo da dedicare a quella che per me è ancora solo una passione, sia perché le mie storie hanno bisogno di decantare a lungo. Crescono strato dopo strato, inglobando esperienze vissute, notizie di cronaca e suggestioni ricavate dalla lettura. Il mio professore di farmacologia del corso per infermieri, il grande professor Bossini, maestro di vita prima ancora che di scienza, diceva sempre che le città italiane sono belle perché cresciute lentamente. Io applico lo stesso criterio alla scrittura, o almeno è così che tento di giustificare la mia indolenza. Al momento sono a circa ¾ della stesura di un romanzo di fantascienza che spero di concludere entro quest’anno. Mi piacerebbe poi scoprire cosa ne è stato di Luca Guerra e della sua combriccola. Penso che abbiano ancora molto da dire”.

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