Tra affreschi, ricordi e natura: l’anima bella di Vetralla

di DANIELA PROIETTI-

VETRALLA  (Viterbo) – Sì, era davvero fresca e buona l’acqua di quel fontanile. Mio padre accostava l’auto sulla  destra, apriva il portabagagli della nostra berlina e attraversava la strada per riempire la tanica, anzi, la ghirba, che poi avremmo portato al mare. Alla fine,  faceva una bella bevuta e si rimetteva al volante alla volta di Tarquinia.

Il sole, dato che preferivamo partire presto per goderci la giornata, non era ancora altissimo,  un po’ come in quella mattina di dicembre di questo anno che vorremmo non fosse mai arrivato. Ce ne stavamo quasi per andare da Vetralla, avevamo fatto un bel giro e ci eravamo fermati a fare una colazione tardiva in quel bar pasticceria che stava diventando una felice abitudine. Percorrendo la lunga via, stretta tra i palazzi che, seppur con qualche interruzione, donano una luce delicata alla pietra con cui sono stati costruiti, ci siamo avviati verso l’uscita del paese.

Le folte chiome degli alberi, le cui radici  si fanno spazio tra i sampietrini un po’ sconnessi, ombreggiavano l’asfalto e ci conducevano alla più interessante delle chiese di Vetralla, San Francesco.

Abbiamo percorso dall’esterno la lunga parete in tufo della navata di sinistra con la speranza di non trovarci di fronte ad una porta serrata, come tante di quelle con cui ci eravamo spesso imbattuti.

Quello che è l’edificio ecclesiastico più importante del borgo posto tra le strade Cassia e Aurelia bis, è situato sulla via Francigena, laddove si immette, appunto, sulla seconda delle due strade, che conduce fino al mare. Si sa che venne edificato sui resti di quello che fu un tempio paleocristiano, risalente all’anno 800, denominato  Santa Maria in valle Cajano.

Siamo entrati nella chiesa, e siamo rimasti ammaliati dalla moltitudine e dalla particolarità degli affreschi che risplendevano illuminati dai raggi del sole che si facevano strada dalle monofore laterali. La parte superiore della chiesa, quella in cui ci trovavamo, è più recente rispetto alla cripta, in cui siamo scesi qualche minuto dopo. In realtà, non sapevamo dove guardare, i dipinti ci attraevano ma, non meno di essi, lo faceva l’elaborata pavimentazione realizzata in stile cosmatesco composto da tasselli di marmo bianco e da porfido rosso e verde. Le  decorazioni presentano forme geometriche che comprendono i Fiori della Vita.

Tale modalità ornamentale prende il nome da uno dei membri (Cosma) di una famiglia di marmorari romani, di cui si ricorda il capostipite  Tebaldo Marmorario,  che si distinsero a cavallo dei secoli XII e XIII. I pavimenti venivano abbelliti, com’era in uso tra i Bizantini, per mezzo di  tarsie marmoree policrome in forme svariate e fantasiose.

Due file di sei colonne e capitelli scolpiti, suddividono l’interno in tre navate che propongono tre diverse absidi. Gli affreschi, realizzati dopo il 1450, rappresentano,   il Battesimo di Gesù dipinto nel XVI e posto accanto alla fonte battesimale, San Bernardino con quattro angeli, nella navata di destra  attribuito in tempi recenti al pittore Andrea del Castagno, Sant’Antonio Abate in  quattro episodi della sua vita illustrati sulla predella, attribuiti al Maestro dell’Osservanza e datati 1460, i Santi Sebastiano, Giobbe, Anselmo e il Salvatore benedicente tra due angeli dipinti alla fine del 1400.

Tra questi, Sant’Orsola con le undicimila vergini trucidate poi dai Barbari a Colonia. La santa, di leggendaria bellezza, venne risparmiata, per essere successivamente trafitta dalle frecce rea di essersi negata al re degli Unni. Di affreschi dedicati alla santa se ne conosce uno di Benozzo Gozzoli di cui, questo, sembra rappresentarne forti influssi.

Nel presbiterio, invece, c’è un sarcofago, di grande pregio, in cui riposano le spoglie di Briobis di Vico, figlio naturale del più noto Giovanni, scolpito da Paolo Romano nei primi anni del 1400.

Una scalinata avvolta nell’ombra, conduce alla suggestiva cripta. Scendendo abbiamo fatto molta attenzione, misurando i passi e seguendo le dimensioni dell’alzata e della pedata dei vetusti gradini. Dopo una manciata di secondi ci siamo ritrovati in un ambiente chi ci ha stretto i cuori, sensibili al pensiero di quanti anni abbiano visto scorrere quelle mura. Sembra che la prima fase costruttiva della chiesa, avvenuta  nell’XI secolo su quelle che erano le rovine della precedente, edificata addirittura quattro secoli prima, riguardi, infatti, proprio un settore della cripta. Il suo ampliamento e la costruzione della basilica superiore, nelle forme in cui oggi ci si mostra, fa riferimento alle date in cui Clemente III stette al soglio di Pietro, ci riferiamo alla fine del XII  secolo, nel periodo compreso tra il 1187 e il 1191, anni che videro la consacrazione dell’altare maggiore. Circa un ventennio dopo, nel 1207, Papa Innocenzo III, colui che dette un primo assenso orale (1210) all’Ordine dei francescani, vi fece visita e assistette al completamento dei lavori. Essa, anni prima, era stata distrutta dai vicini e rivali viterbesi. Nel XV secolo, con l’arrivo dei frati francescani, la chiesa venne poi dedicata a San Francesco.

Uscendo ci siamo spostati, in maniera ardita, sulla statale per scattare le foto a quella facciata che tanto assomiglia alla viterbese Santa Maria Nuova, sebbene sia composta di blocchi in tufo e peperino, alcuni dei quali provenienti dal poco distante Foro Cassio. Tra i frammenti presenti, uno marmoreo in cui vi si ritrovano i resti di un’epigrafe latina. Della stessa origine, alcuni dei capitelli che distinguono le colonne divisorie delle navate e quelle che sostengono la cripta.

Abbiamo deciso di fare un giro verso le frazioni che attorniano il comune vetrallese e, a bordo della nostra automobile, siamo discesi lungo la via Aurelia bis, superando quella curva così accentuata che, da bambina, mi metteva tanta paura. Avevo la sensazione che saremmo caduti giù, nel dirupo, tra gli arbusti e le rocce.

Costeggiando le mura della cittadina, accarezzati a destra e a sinistra dal verde delle campagne che fanno del territorio uno splendido e incontaminato giardino, siamo giunti su di un  pianoro collocato in una posizione abbastanza elevata. Il cielo era dipinto col  tipico azzurro delle mattine gelide, quando il vento taglia e non vi è nessuna nube che freni un po’ della sua potenza. Come se ci avessero sentito, le nuvole si sono presentate all’orizzonte. Enormi, pesanti, di un colore che molto si avvicinava a quello di una delle mie pietre preferite, lo zaffiro.

Ci siamo soffermati ad osservare quell’edificio, oramai in rovina, che ha rappresentato uno dei più grandi campi di prigionia costruiti durante la II Guerra Mondiale. In realtà il suo periodo di attività fu piuttosto breve, neanche un anno, dato che venne costruito nell’aprile del 1942 e chiuso durante la vigilia di Natale dello stesso anno. Lo scopo di questo campo era  recludere i soldati inglesi fatti prigionieri durante le campagne che si svolsero nell’Africa Settentrionale e Orientale. L’estensione dell’appezzamento di terreno su cui sorgeva, misurava all’incirca 5 ettari all’interno dei quali vi erano tredici edifici che potevano ospitare fino a 4000 unità, che non vennero mai raggiunte. Si arrivò, difatti, ad un numero che superò di alcune centinaia i 3000.

Dopo la dismissione venne utilizzato dai militari italiani fino al giugno del ’44 e successivamente funse da ricovero per gli sfollati. Abbiamo lasciato quel luogo, che ci ricorda uno dei periodi più bui della storia italiana per spostarci verso uno  talmente fatato che potrebbe fare seriamente concorrenza ai poco distanti boschi in cui è immersa la strada che da San Martino al Cimino ci ha portati qua. La strada che conduce a Blera, attraversa il Bosco delle Valli, dove un suggestivo soffitto di foglie tesse una tela tra la terra e il cielo.

Sulla sinistra, in fondo ad un viale incontestabilmente rettilineo, una piccola chiesa. Abbiamo inchiodato e siamo scesi. Tante volte c’ero passata e altrettante non avevo desistito dal farlo.

La Chiesa della Madonna della Folgore, dalle dimensioni abbastanza ridotte, è legata ad un fatto particolare, che ha del miracoloso. Oltre sessantacinque anni fa,  si era accampato nel bosco un drappello di lancieri di Montebello. I soldati, durante un violento temporale, di quelli che interrompono bruscamente l’afa estiva  e mostrano una forza che sorprende sempre, nonostante se ne siano visti parecchi, si rifugiarono sotto una grande quercia che venne colpita da un fulmine.

Inaspettatamente, e miracolosamente, questi rimasero illesi e si sentirono di render grazie alla Vergine. Poco dopo venne innalzata un’edicola dedicata alla Madonna della Folgore e, successivamente, fu fatta costruire la chiesa, che venne consacrata nel 1967.

Tutti gli anni, nel mese di giugno, si celebra in suo onore una festa molto sentita che prevede una processione e un’infiorata lungo l’intero viale che porta alla cappella.

Poco distante da essa, un altro edificio ha catturato il mio sguardo. Non ha nulla di sacro o miracoloso, non è storico e non ha alcuna rilevanza architettonica, ma racchiude in esso cinque mesi della mia vita lavorativa, in cui stabilii uno stretto legame con una persona speciale.

Nel 2000 venni trasferita a Vetralla, all’epoca ero docente di sostegno alla scuola dell’infanzia. La dirigente di allora mi assegnò alla scuola di Pietrara, un aggregato rurale distante un paio di chilometri dal bivio di Cura di Vetralla.

Lo stabile era piccolo, se non ricordo male era composto di due sezioni, un’aula polivalente e la mensa.  Un lungo corridoio dava sulla collinetta che portava alle case della frazioncina. Sul retro un bel giardino, con giochi in legno e l’immancabile pratino. Lì conobbi una mamma, una donna fortissima che, grazie all’amore e alle spiccate competenze professionali, compì il miracolo di rimettere sulle proprie gambe suo figlio. Non aggiungo altro per dovere di privacy, ma l’ho sempre portata nel cuore. Non conclusi l’anno, rimasi incinta e trascorsi i mesi della mia gravidanza in casa. Il settembre successivo ero a Viterbo, ma alcuni anni dopo tornai ad insegnare a Cura di Vetralla, in una prima. Fu un’ottima esperienza, non soltanto dal punto di vista professionale. Assieme alle mie colleghe mappammo tutto il territorio a suon di ristoranti e bar.  Quale miglior modo di consolarsi dopo ore votate al lavoro?

Nel ricordo dei mesi passati in quella scuola, siamo andati a fare un giro, ci siamo allontanati in direzione sud, solcando la strada ferrata e ammirando la bella villa in cui viveva un’amica delle zie di mia madre, a cui ricordo di aver fatto visita quand’ero ancora molto piccola. Di fronte, una via in fondo alla quale viveva un nostro amico da cui mi recavo, oramai adolescente, assieme alle mie amiche per trascorrere pomeriggi tra chiacchiere, musica e risate.

L’ora di andarcene stava arrivando, e la via del ritorno ci attendeva. L’ultimo desiderio è stato vedere l’antica Via Cassia, dove ancora si riconosce quel Basolato Romano che tanti carri, zoccoli e piedi deve aver visto. La storia antica si confondeva alla favola del bosco. La realtà, invece, ci ricordava che era giunta l’ora di ritornare a casa.

E così ce ne siamo andati.

L’auto, morbidamente, ha percorso la striscia d’asfalto che porta a Viterbo. Mentre guidavo, seguendo le dolci curve della via Cassia, pensavo a quante volte io le avessi affrontate. In età diverse e con stati d’animo differenti.

Un ricordo su tutti prevaleva. Il pungente profumo dell’olio che proveniva dai frantoi. Vetralla, città dell’olio. Era un novembre di parecchi anni fa, e tornavo verso casa. Il sole era alto, il cielo limpido e l’aria profumata. Non avrei mai immaginato che, tanti anni dopo, mi sarei innamorata di quel luogo da cui si ammirano i monti e, se guardi bene e ti poni in alto, magari sfiorata dal vento, il mare.

 

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