Traviata, un amore a Parigi nell’800 romantico borghese

di CINZIA DICHIARA-

Abbiamo appena festeggiato S.Valentino e dunque discorriamo di un personaggio appartenente al teatro musicale, che fin dall’origine, nonostante lo scandalo per il soggetto allora sconveniente, ha rappresentato l’amore, un amore per eccellenza drammatico fino al sacrificio della rinuncia. Il personaggio in questione è quello di Violetta Valéry, cocotte d’altobordo resa immortale nella Traviata, commovente versione melodrammatica di Giuseppe Verdi e del librettista Francesco Maria Piave de La Dame aux camélias, la Marguerite Gautier del romanzo (1848) e del dramma (1852) di Alexandre Dumas figlio. Vi si narra di una femme fatale realmente esistita nella Parigi salottiera del primo ottocento e vissuta in un ambiente tra il corrotto e il mondano definito a pennello ‘demi monde’ da Honoré de Balzac.

La mantenuta di un vecchio riccone, nella trasposizione lirica il barone Douphol (baritono), pare che in realtà fosse l’amante, adornata da camelie ora bianche ora rosse secondo un suo galateo della disponibilità, dello stesso autore del romanzo, nonché a  un certo momento anche di Franz Liszt e di altre personalità di quel crocevia di incontri tra un’aristocrazia raffinata e decadente, di volta in volta curiosa o annoiata, e una borghesia forte e rampante, con intellettuali e artisti di grido, politici ma anche giocatori d’azzardo, truffatori, affaristi o avventurieri che si sfidavano a duello.

Secondo la descrizione di Alexandre Dumas “era alta e sottile, scura di capelli, il viso rosa e bianco. Aveva la faccia minuta, occhi allungati di smalto, come una giapponese, ma vividi e fieri, le labbra d’un rosso ciliegia, i più bei denti del mondo”.

Nata col nome di Alphonsine Rose Plessis (1824-1847), la diafana ed esile fanciulla divenuta immortale in letteratura, teatro e musica, aveva adottato lo pseudonimo Marie Plessis, al quale in seguito aveva deciso di anteporre il prefisso nobiliare du, trasformandolo in Du Plessis o Duplessis: aveva gusto ed educazione nonostante la semplice origine e l’infanzia trascorsa tra gli stenti; viveva nel lusso, sovente eccedendo nello sfarzo di un’esistenza dissoluta; possedeva una cultura e nella sua biblioteca disponeva di opere di Walter Scott, di Dumas padre, di Victor Hugo, ma era spesso febbricitante, poiché malata, come diverse protagoniste del suo tempo. Una giovane e sfortunata eroina romantica, morta poco più che ventenne di tisi, nella vita come nell’opera.

‘Amami Alfredo’ è stato il suo grido d’amore, lanciato nel registro di soprano e sostenuto dall’accompagnamento accorato e ardente degli archi, in particolare dei violini, e noto a chiunque. La Traviata è forse l’opera più rappresentata al mondo; non passa giorno che la recita dell’incantevole e sfortunata Violetta non vada in scena in qualche teatro del pianeta. Anche la vicenda è nota: Alfredo e Violetta, conosciutisi nel gaudente e superficiale ambiente parigino, dopo un idillio in campagna per vivere il quale lei si è privata quasi di ogni avere, vengono separati dalle convenienze, ovvero dal di lui padre, Giorgio Germont (baritono), che, raggiunta l’estasiata Violetta nella dimora alle porte di Parigi, con la sua aria “Di Provenza il mare, il suol” la induce a interrompere ogni frequentazione con il figlio, poiché l’onta della sua reputazione macchia l’onore della sorella del giovane, ‘pura siccome come un angelo’ e in età da marito. Ecco, è qui che il sogno va in tilt. Il paradiso scompare e inizia l’incubo.

Qualora osservato con gli occhi del modus vivendi contemporaneo tutto diverrebbe piuttosto scontato e la lacerante passione finirebbe nella caritatevole commiserazione di Violetta. Sì, perché Violetta, nonostante la sofferenza che la rinuncia comporta, va contro sé stessa mettendo a tacere la voce dell’amore per cedere alla richiesta. Dunque, quell”Amami Alfredo’, che nell’immaginario comune può sembrare una dichiarazione di folle amore, costituisce più che altro la supplica disperata di mantenere fermo quell’amore sul quale di lì a poco si abbatterà la catastrofe.

Infatti, al colmo del sacrificio, l’infelice amante farà in modo di provocare irrimediabilmente l’ira dell’amato, facendo ritorno alle vecchie consuetudini mondane al fine di esserne abbandonata.

Il penoso escamotage pertiene più che altro a un mondo con ben altre regole che non quelle della modernità; difficile comprendere il gesto di un’eroina come Violetta, in un’epoca, come la nostra, di diritti e di affermazione dell”io’ fino alla pretesa di autoreferenzialità conclamata anche a mezzo ‘social’.

Così come vuole la trama di una tragedia senza scampo, Alfredo precipiterà, sentendosi tradito, deluso, disonorato e distrutto interiormente al punto di gettarle platealmente addosso una borsa di denari, simbolo, il più efferato, dell’affronto a una donna, così come il tradimento è gesto il più imperdonabile di una donna ai danni dell’amante.

Infatti, secondo una nozione che presso la società ottocentesca era di vitale importanza, l’amore (tradito) e il senso dell’onore, così come altri ideali, travalicavano l’interesse hic et nunc e sulle sorti dell’individuo gravavano ideali impegnativi. Basti pensare a un ideale diffuso a tappeto come quello patriottico, al quale era pressoché sistematico immolarsi, cosa che oggi farebbe rabbrividire più di qualcuno.

La correttezza di Violetta (il non voler danneggiare una giovane incolpevole e con essa l’amato e dunque la famiglia), costituisce un deterrente incisivo al punto di prevalere sul desiderio ‘egoistico’. In definitiva allora, la Traviata non si sottrae a un piano di lettura che valuti l’aspetto della  ‘moralità’, per riferirci a un parametro attualmente di sicuro mutato e ridimensionato, nonché ad un’analisi sociale, per essere compresa e interpretata nelle diverse declinazioni del nobile sentimento d’amore cosi come dell’esercizio della passione e del suo struggente compimento, altresì per non finire trattata al pari di una soap opera americana, rischio al quale più di qualche regia attualizzante si è esposto.

Il perbenismo, con tutti i princìpi di vita connessi a quella mentalità, ne compromette l’esito, nonostante il tentativo di recupero finale da parte di Alfredo in “Parigi o cara”, canto di commiato a due. Questa è infatti una tragedia per allora moderna e trasgressiva, che oggi implica invece una particolare sensibilità nell’adesione a quella ‘mentalità’, termine che piace a Proust, il quale nella Recherche definisce tale lessema come “una parola che si lancia” (Francesco Pitocco, Storia delle Mentalità, Roma, Bulzoni, 2012, II ed., p. 83).

Inevitabilmente, brani come il coro colmo i promesse “Libiamo ne’ lieti calici”, la cabaletta un po’ cinica altresì scettica “Sempre libera degg’io”, la poetica e sentimentale aria tenorile “Lunge da lei per me non v’ha diletto” e la patetica e dolente aria “Addio, del passato” risuonano nel cuore coi loro temi altamente ispirati e attraverso di essi, la diafana eppur brillante lorette e il suo adorato ragazzo di provincia, continuano a farci sognare, commuovere e palpitare. La loro bellezza, per fortuna, non muta.

 

 

 

 

 

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