Tuscia Times all’Arena di Verona per ‘Il Barbiere di Siviglia” di Rossini

di CINZIA DICHIARA-

VERONA-  Gradevole, vivace e ben riuscita, all’Arena Opera Festival di Verona 2024, la penultima recita del Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini (Pesaro, 29 febbraio 1792 – Passy, 13 novembre 1868), dramma comico su libretto di Cesare Sterbini, con la consolidata regia del 2007 di Hugo de Ana, e con l’orchestra della Fondazione Arena di Verona diretta da George Petrou, altresì con il coro e il corpo di ballo diretti rispettivamente da Roberto Gabbiani e Leda Lojodice.

Teatro gremito fino all’inverosimile, pubblico particolarmente attento nonostante il caldo eccessivo e quell’atmosfera turistico-vacanziera che sempre contraddistingue gli spettacoli estivi nell’imponente anfiteatro, la cui eclatante bellezza, vale la pena ricordare, attiene all’eredità dello splendore di Roma. Magico il silenzio assoluto in presa diretta, difficile da immaginare in uno spazio gigantesco che dall’alto delle gradinate provoca un vero senso di vertigine.

Ovazioni da stadio per l’aria di Figaro, applausi più contenuti ma sempre entusiastici per un caposaldo del repertorio rossiniano, e operistico in generale, qual è l’aria di Basilio. Anche il personaggio di Rosina, grazie all’afflato con gli ascoltatori, ha sortito un alto indice di gradimento, con momenti di sentita partecipazione e applausi calorosi. Altri momenti della rappresentazione scenica hanno ottenuto invece tributi leggermente più discreti ma nel complesso il rituale della messinscena operistica si è svolto ottimamente e con quella briosità che, forse più che in altri autori, in Rossini segna il raggiungimento del risultato migliore.

L’ambientazione, scevra da tentativi a tutti i costi di una ricerca ermeneutica sempre più in voga e spesso lontana dal contenuto primigenio dell’opera, si presenta semplice ma del tutto piacevole, come più attiene a uno spettacolo considerato anche nella sua funzione divulgativa, cosa che va benissimo poiché un siffatto allestimento risulta più autenticamente funzionale alla partitura e alla narrazione, riferendosi al teatro della tradizione pur nella modernità stilizzata dei mezzi impiegati: una serie di quinte rotanti, poste a costituire le siepi di bosso di un magnifico giardino settecentesco, complice di amori e inganni a fin di bene com’è tipico dell’opera buffa. L’intero spazio di proscenio è occupato infatti da elevate e regolari strutture geometriche vegetali, modellate sul tipo più consueto del giardino all’italiana, entro le quali il dipanarsi degli eventi scenici si svolge con estrema mobilità dei personaggi che vi si aggirano. Gli enormi fiori finti che svettano, rose giganti dalle nuance rosso sangue consone alla terra sivigliana, risultano piuttosto kitsch ma adeguate all’effetto globale di un habitat di fantasia che non solo si presta allo svolgimento dell’azione ma è idoneo a favorire efficaci passaggi registici, come nascondimenti o strategie tattiche, e momenti coreografici in cui personaggi, mimi e ballerini intervengono in trovate plateali, tra queste il passaggio di mano in mano di sedie, nelle loro movenze impostate secondo una scansione gestuale ritmata con aplomb.

La direzione dell’orchestra della Fondazione Arena è applauditissima. Essa non solo non delude ma si qualifica a pieno titolo quale sostanziale punto di forza, calamitando l’attenzione del pubblico. La padronanza esecutiva di Petrou risalta soprattutto per la ricerca di vivacità, puntualmente assecondata dalle voci anche se con qualche eccezione momentanea, per la capacità di collegamento tra i diversi momenti dell’azione, che diviene sostegno al piano della regia agevolandone e sottolineandone lo schema, nonché per la ricerca di raffinatezza timbrica, purtroppo talora appena percepibile, e spesso con difficoltà, al di sopra delle gradinate.

Eppure, l’afflato tra le parti, tra le sezioni strumentali e tra queste con i personaggi, e, inoltre, le cifre espressive e stilistiche dall’elegante allo sbilenco o al sorprendente, in una parola al comico, raggiungono le migliaia di astanti fino all’exploit finale, cui contribuisce l’ottimo coro, dalla timbrica molto bella e screziata anche se non sempre sonora al punto giusto. Qualche imprecisione è dovuta soltanto a lievissime sfasature con l’orchestra in taluni attacchi o sillabazioni ritmiche. Altrettanto dicasi di alcuni recitativi degli interpreti, tuttavia generalmente abbastanza nitidi e incisivi.

Bravo, bravissimo il Figaro di Davide Luciano, un factotum esuberante che in alcuni momenti si mostra vero leone, in grado di dominare vocalmente la difficile scena dell’Arena. La sua cavatina riesce a bucare e, cosa non proprio facilissima, a oltrepassare la distanza dalla scena verso le gradinate alte.

La Rosina del mezzosoprano georgiano Ekaterine Buakidze appare compiutamente nel ruolo fin dal suo ingresso con la cavatina “Una voce poco fa”, malgrado un ipercontrollo della vivacità dei movimenti, accompagnati comunque da movenze graziose che ne assecondano il carattere civettuolo. Questo è ampiamente posto in risalto da un colore vocale caldo e tornito, pieno anche se non sempre abbastanza potente, in grado di irraggiare di luminosa morbidezza il carattere ‘italiano’ del personaggio, anche nelle escursioni al registro grave.

Nel ruolo dell’innamoratissimo Almaviva, il tenore americano Jack Swanson emerge per il piglio elegante e soprattutto disinvolto nella parte, al quale tuttavia fa da contraltare una voce forse non abbastanza vigorosa che si impone moderatamente, soprattutto negli insiemi, mentre si disimpegna agevolmente nell’alternanza Conte/Lindoro, superando il difficile e atteso banco di prova dell’aria “Cessa di più resistere”.

 Il baritono Carlo Lepore interpreta un Don Bartolo, convincente nella sua statura di personaggio buffo. L’inattendibile medico, anziano e tedioso tutore della giovane Rosina, sciorina con opportuna decisione il martellante sillabato di “A un dottor della mia sorte”, notoriamente pezzo di bravura tra i più ostici del repertorio, e la sua loquela, in perfetto stile comico, nel complesso fila liscia.

Nel suo ritorno in Arena, Alexander Vinogradov è un don Basilio gradito al pubblico di questa serata agostana, grazie alla voce di basso piuttosto corposa ma duttile e musicale, nonché alle qualità attoriali con cui disegna il personaggio del mellifluo maestro di musica. Si presenta in modo grottesco e ironico, con la celeberrima aria “La calunnia è un venticello”, conquistando immediatamente l’intera e vasta platea.

Accende il pubblico il personaggio minore di Berta, l’anziana governante di casa interpretata da una travolgente Marianna Mappa, soprano in grado di scatenare ovazioni strepitose con la sua aria “Il vecchiotto cerca moglie”, sia per la caratterizzazione del personaggio comico sia per la vocalità agevole, destreggiandosi con naturalezza nella tessitura disomogenea del brano.

Esilarante l’intero allestimento con gruppi d’insieme e coreografie divertenti e spiritose come si conviene al capolavoro del genere buffo italiano, in un tripudio garantito scenicamente anche dall’abbondanza di figuranti, oltre che dal nutrito corpo di ballo. I variopinti e bellissimi costumi, dello stesso regista argentino, che ha curato anche scene e luci, particolarmente indovinati e sfiziosi, nonché le dilettevoli e scherzose trovate hanno contribuito al risultato finale. Fuochi d’artificio e applausi a più riprese.

La recensione si riferisce alla recita del 31 agosto 2024.

 

 

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