“Viterbo mi ha scelto”, intervista a Sandro De Palma

Il pianista torna a suonare per l’Unitus, sabato 6 maggio

di CINZIA DICHIARA-

VITERBO- Artista noto nel mondo concertistico e protagonista della vita musicale della Tuscia, Sandro De Palma si è esibito più volte per il pubblico di Viterbo, che lo segue ormai da tempo nella duplice veste di pianista, la cui vasta attività spazia da Roma a New-York, alla Cina e di organizzatore del festival ‘I bemolli sono blu’, il cui particolare intento consiste nel far luce sui grandi autori della storia della musica attraverso l’esecuzione degli autori minori.

  • Maestro De Palma, il suo pianismo prende origine dalla celebrata scuola napoletana di Vincenzo Vitale (1908-94)

La mia appartenenza alla scuola napoletana ha significato sentirmi erede di una scuola importantissima, che ha ramificazioni in tutto il mondo. Inizialmente ho studiato con Vitale, ma anche con Bertucci, insegnante di sua fiducia, apprendendo a suonare grazie alla guida di entrambi.

Vitale è stato un grande didatta del pianoforte. Quando ravvisava in altri pianisti qualche difetto di impostazione, sapeva già che oltre una certa età non avrebbero più potuto suonare. Invece il suo metodo, se applicato in modo costante e accompagnato da uno stile di vita adeguato, permette di suonare fino a tarda età. Basta considerare qualche esempio. Marta Argerich, solo per citare una grandissima artista, suona ancora con una tecnica che sembra quella di una trentenne e, infatti, ha studiato con Vincenzo Scaramuzza (1885-1968), calabrese appartenente alla scuola napoletana.

Va considerato inoltre che il pianoforte richiede muscoli allenati. Vitale raccontava di come  addirittura lo stesso Arthur Rubinstein (1887-1982), a un certo punto della carriera avesse cambiato l’impostazione tecnica, assimilando in gran parte i concetti della scuola napoletana.

  • Il passaggio da Vitale a Magaloff?

All’età di 11 anni, lo stesso Vitale mi introdusse da Nikita Magaloff (1912-92), che stimava moltissimo. Lo incontrammo all’Hotel Excelsior, a Napoli. Signore elegante, distinto, mi chiese di presentarmi, e, alla mia risposta, commentò con piglio entusiastico che ho un bel nome per un pianista. Da allora mi seguì ogni tanto e, allorquando il maestro venne a mancare, andai a frequentare i suoi corsi a Ginevra. Mi rivolsi a lui per preparare gli studi di Chopin per il Festival di Brescia e Bergamo, allora intitolato ad Arturo Benedetti Michelangeli (1920-95). Mi elargì qualche consiglio, soprattutto sul modo di affrontare in pubblico l’esecuzione di questi pezzi, insegnandomi alcuni trucchi del mestiere.

  • Ce ne può confidare qualcuno?

Sorride- Si tratta di dettagli tecnici. Ad esempio, è piuttosto difficile affrontare l’esecuzione dello studio n. 1 dell’op. 10 passando subito al n. 2, molto diverso per il tipo di tecnica; Magaloff mi suggerì, allora, di fermarmi un attimo, aspettando leggermente di più di quel che facevo e, togliendo le mani dalla tastiera, rilassare. Poi mi diede altri piccoli accorgimenti. Ricordo che peraltro mi suggerì di prendere un accordo con la mano sinistra; lui infatti lo prendeva con la sinistra, non quando studiava ma quando suonava in pubblico. Mi fece capire, inoltre, la differenza tra lo studio inteso come esercitazione a casa e lo studio di un brano da suonare in concerto, che diviene quindi un brano di musica; altrettanto, mi introdusse alle peculiarità degli studi di Chopin, indicandomi la differenza tra questi e gli studi di Czerny.

Ovviamente, era un personaggio incredibile, aveva suonato tutta l’opera di Schumann e tutta l’opera di Chopin. Veniva ogni anno a Napoli, a suonare per l’Accademia Musicale Napoletana (fondata da Alfredo Casella nel 1933) ove ciclicamente eseguì tutto Schumann e tutto Chopin. Allora usava molto eseguire i cicli autoriali per intero: in tal modo il pubblico imparava a conoscere il repertorio; del resto, non vi erano molte altre possibilità, a parte le incisioni discografiche in vinile. Oggi forse i cicli hanno meno senso, in quanto abbiamo tutti i repertori a disposizione, andando su internet. Inoltre, la vita concertistica si è innovata, soprattutto di recente.

  • Che cosa le ha lasciato di più prezioso l’insegnamento di Magaloff?

In primis i consigli circa l’atteggiamento verso il pubblico. Era un grande concertista, dunque conosceva tutto del pianoforte e della letteratura del suo strumento. Per giunta trasmetteva ai suoi discepoli anche una tradizione importante, derivante dalla sua frequentazione diretta con alcuni compositori storici; in particolare, giocava a scacchi con Sergej Prokofiev!

Vitale era diverso, non badava a elementi esteriori, era un artigiano, ci faceva suonare, studiare tecnica, non dava peso ad altro, era pragmatico, ideale per la formazione di base. Quando incontrai Magalov fui conquistato dallo charme. Gli feci ascoltare Papillon op. 2 di Schumann. All’età di tredici anni mi consigliò di affrontare gli Studi di Chopin, che Vitale precedentemente non mi aveva ancora permesso di studiare.

  • Come proseguirono i suoi studi?

Negli anni ‘90 incontrai Aliza Kezeradze (1937-96), pianista e pedagoga georgiana proveniente dalla scuola russa, moglie del celebre pianista Ivo Pogorelich. Dopo essermi formato nella scuola napoletana di Vitale e dopo aver assimilato i precetti della scuola francese di Magaloff, pensai di ampliare gli orizzonti. Cosicché, un po’ come avviene per i ragazzi di oggi che vanno all’estero e fanno esperienza, mi recai per un anno a casa di Pogorelich, che allora era all’apice della carriera, fino a quando Alice non scomparve, prematuramente. Lei ha completato la mia formazione.

Inoltre andavo spesso in Francia, essendo molto amico della vedova di Samson François (1924-70), grande pianista, poco noto in Italia. Lei (Josette Bahvsar n.d.r.), aveva una fondazione intitolata al marito, per aiutare i giovani concertisti, e ogni estate mi ospitava nella sua casa, nel sud della Francia. Essendo spesso suo ospite, capitò che conoscessi un altro celebre pianista, Pierre Barbizet (1922-90), direttore del Conservatorio di Marsiglia, tra i pianisti preferiti da Herbert von Karajan (1908-89), famoso anche per il suo duo col violinista Christian Ferras (1933-82). Questi mi disse una frase che allora mi colpì: «Tu devi ‘rubare’. E saperlo fare senza che se ne accorgano». (Il termine ‘rubato’ indica in musica una sapiente flessione del ritmo, con funzione espressiva, all’interno di un fraseggio n.d.r).

  • Come vive la modernità?

Trovo che, oggi, i giovani abbiano diversi mezzi per farsi conoscere e apprezzare. E capita di ascoltare al pianoforte fenomeni inauditi. Occorre dire che le condizioni dell’apprendimento sono del tutto migliorate e alla portata di tutti. Prima si andava a studiare in Russia, in America, ora è tutto più accessibile: sia gli spostamenti, sia l’approccio alla musica sono facilitati. Addirittura internet presenta delle app che migliorano molto l’orecchio e il metodo di studio. Il mondo è cambiato velocemente. Per quanto mi riguarda, mi sono adeguato, tanto da essere stato tra i primi ad adottare l’iPod nei concerti. Lo ritengo davvero utile, non per i programmi solistici eseguiti a memoria, ma per la musica da camera o per brani messi su in poco tempo.

Certamente la tecnologia ci offre possibilità immense, poi sta a noi saperle utilizzare nel modo migliore. Grazie ad essa, durante la pandemia ho concepito l’idea di organizzare un festival in streaming presso alcune prestigiose dimore storiche della Tuscia, cosicché ho elaborato il progetto “Itinerari Farnesiani: Dimore in Musica”. A tempo di musica in luoghi senza tempo. Benché l’esibizione dal vivo sia un’altra cosa, quei concerti sono stati molto seguiti, perché tutti erano costretti a stare a casa; se n’è interessato anche il tg3 e abbiamo avuto decine di migliaia di visualizzazioni.

  • Trova il tempo di trasmettere il suo sapere con l’insegnamento?

Ho un allievo particolarmente bravo in Bach, credo che porterà avanti la mia esperienza. Lorenzo ha una mentalità polifonica che oggi si sta perdendo, non ama Rachmaninoff; Chopin, poi, neanche molto. Attualmente sta affrontando il concorso Lazio Sound e mi è appena giunta la notizia che sarà fra i tre finalisti. Evidentemente la preparazione bachiana è ancora vincente, dato che abbiamo deciso di presentare le Variazioni Goldberg e la Sonata op. 2 n. 1 di Beethoven.

Ma ritengo che, più che l’allievo, sia il maestro che impara, insegnando; si può imparare persino dall’allievo che suona male. Dunque, più che un maestro che insegna, io sono l’allievo che impara e, imparando, può prendere spunto da qualsiasi fonte, da un’esecuzione in video, da un concerto.

  • Che cosa vuol dire avere alle spalle una scuola?

Sono contrario alla fissità di regole stereotipate di una scuola. La scuola consiste più che altro nell’avere un metodo, anche artigianale, e io ce l’ho: bisogna applicarsi con costanza, lavorare sui passaggi difficili. Bach era un genio ma anche un artigiano, ugualmente lo era Beethoven. Forse solo Mozart aveva un’ispirazione divina.

  • Vi è un filo rosso che collega i brani del programma che andrà ad eseguire?

In apertura eseguirò, dal II Libro del Clavicembalo ben temperato di Bach, il Preludio e Fuga n. 14 in Fa # minore, una fuga a tre voci poco eseguita: la tonalità è difficile e molto particolare, ha una tinta espressiva di tristezza. Muzio Clementi ha pensato a questa tonalità per una magnifica Sonata, l’op 25 n. 5, e per un bellissimo Studio (di recente ho pubblicato un cd dedicato all’autore degli Studi del Gradus ad Parnassum). È in questa stessa tonalità anche la malinconica e dolente Siciliana, meraviglia assoluta del II movimento del Concerto in La magg. K 488 di Mozart.

Il programma di questo concerto tuttavia trova il suo fulcro nella Sonata n. 31 in La bemolle maggiore op. 110 di Beethoven.

L’accostamento di Bach con Beethoven nasce pensando all’ultimo Beethoven, poiché, alla fine della vita, il genio di Bonn cerca di introdurre nella forma-sonata gli stilemi barocchi. Pur non essendo Bach conosciuto dai più a quell’epoca, grazie alla sua formazione rigorosamente canonica il maestro fece studiare a Beethoven il Clavicembalo ben temperato, servendosi di una copia del manoscritto. Ancora oggi Bach è fondamentale nella preparazione di un musicista, peccato che nei conservatori la forma della fuga pare che venga talora trascurata: l’impostazione contrappuntistica è irrinunciabile. Beethoven ce ne fornisce un evidente richiamo, attraverso la scrittura fugata dei finali di sonata; pensiamo inoltre alla Grande Fuga op. 133.

  • Possiamo pensare anche all’op. 106

Certamente, nonostante le differenze: la fuga dell’op. 110, nello specifico, crea un clima densamente lirico, diversamente dalla fuga dell’op. 106, il cui materiale tematico, peraltro, non si presta a sviluppare una fuga, cosa che la rende abbastanza farraginosa e difficile da eseguire e da seguire. Infatti, solo il genio beethoveniano poteva piegare in una forma contrappuntistica un materiale tematico così ostico che sembra di assistere all’eruzione di un vulcano, dal quale scorrono lava, ferro e minerali.

Inoltre, possiamo riferirci anche alla forma della variazione, come le variazioni dell’op. 109. Anche la variazione è forma tipicamente barocca, basti pensare alle bachiane Variazioni Goldberg o alle ciaccone variate di Händel. Beethoven compose variazioni per tutta la vita, tuttavia bisogna distinguere, poiché fino all’op. 35 manca il numero d’opus. Ciò non è casuale, poiché, inserendo i numeri d’opus nelle Variazioni op. 34 e op. 35, egli scrive all’editore: «Ho composto due serie di variazioni davvero in modo nuovo» – sto citando a memoria – «generalmente sono gli altri a dirmi che ho scritto in modo nuovo, stavolta sono io a dirlo».

La Sonata op. 110 ha anche una particolarità: non reca alcuna dedica sul frontespizio. Composta il giorno di Natale fu da alcuni ribattezzata ‘Sonata di Natale’. In proposito si sono avvicendate molte teorie, e, alla fine, pare che l’abbia scritta per sé stesso. A partire dall’indicazione davvero poco frequente del I movimento, “con amabilità”, Beethoven richiede che essa venga suonata con intima gentilezza, postulandone una cantabilità affettuosa, mentre il II movimento presenta l’unione di due temi popolari. Nella conclusione, infine, la fuga, il cui tema è accompagnato da un susseguirsi di suoni rapidi, trascina in una sorta di apoteosi suprema, nella quale qualcuno ha voluto intravedere un’epitome di morte e resurrezione.

La seconda parte del programma (non so se vi sia l’intervallo) è invece dedicata all’ultimo Schubert, con l’Allegretto in Do minore D. 915 e i Drei Klaviestücke op. post. D 946, brani che furono rinvenuti da Brahms, il quale ne curò la pubblicazione. Schubert non ebbe neanche la soddisfazione di vederli pubblicati in vita, come, del resto, altre sue opere. Il programma prevede, in definitiva, da un lato l’ultimo Beethoven, dall’altro l’ultimo Schubert.

  • Qual è il suo rapporto con la città di Viterbo?

Con Viterbo ho un rapporto particolare da quando frequentavo, col mio amico Luca Verdone (fratello dei Carlo n.d.r.), i concerti del Festival Barocco e le terme dei Papi, essendo, entrambi amanti delle abluzioni, un po’ come gli antichi romani, finché comprai una casa a San Pellegrino, che però non frequentavo mai. Pensai, quindi, di metterla in vendita, oppure di organizzare qualcosa al fine di avere un interesse, di darle un senso. Così è nata l’Associazione Musicale Muzio Clementi, per la quale di recente ho acquisito una nuova sede, in città, con due locali al pianterreno di Palazzo Chigi, dimora che l’illustre famiglia di banchieri senesi acquistò dalla famiglia patrizia dei Montoro. La nuova base operativa si presta a ospitare degli house concert e altre attività e iniziative musicali.

Senza dubbio il mio rapporto con questa città cresce nel tempo e sembra predestinato. Ora,  persino il mio allievo, impegnato nella sezione Y love Mozart del concorso Lazio Sound, si esibirà a Viterbo, proprio perché qui è previsto lo svolgimento della prova finale. E lo stesso allievo ha già debuttato sempre a Viterbo, partecipando ai concerti delle Dimore Farnesiane. Ora, tutto questo non sarà un caso. Sono davvero legato a questa città. Posso affermare che è Viterbo che mi ha scelto.

  • Il pubblico viterbese come la accoglie?

Ho tenuto concerti in molte occasioni, sia da solista, sia in formazioni da camera. Inoltre, negli anni ho portato nella cittadina dei papi il Quartetto Adorno, il Quartetto Guadagnini, un quartetto e un trio dei Berliner Philarmoniker e, ogni volta, tutti si innamorano del luogo. Un quartetto americano, proveniente dalla Duke University, è pazzo di questa città.

Forse, all’interno delle mura di cinta se ne ha una visione limitata ma chi viene da fuori nota che è un sito pieno di storia, di arte, di possibilità. Possiede vestigia straordinarie. Tuttavia è una città piuttosto difficile, interna, i collegamenti sono lenti, per arrivare da Roma occorrono circa due ore. Meglio però che resti un po’ chiusa, mantenendo il suo fascino, e non diventi troppo turistica.

  • I giovani frequentano questo particolare ambito concertistico?

 Abbiamo un pubblico dei concerti, ormai da anni; forse manca un ricambio generazionale, poiché, in generale, i giovani non sono messi in condizione di apprezzare una così bella risorsa. Questa è una lacuna grave e questo messaggio non riesce a passare presso la classe politica. Esso va al di sopra delle diverse fazioni partitiche, poiché purtroppo in Italia la musica è rimasta sempre ai margini. Anche il pianoforte, lo abbiamo inventato noi, e poi non abbiamo avuto la fioritura di un’adeguata  letteratura specifica, poiché, in prevalenza, lo si sa, i compositori venivano pagati per scrivere opere liriche.

Osservando i numerosi pianisti orientali che si sono fatti avanti suonando con padronanza tecnica, è facile notare che ormai i vincitori di concorso sono tutti coreani, o, comunque orientali, perché si sono impadroniti del nostro repertorio, con i loro metodi, studiando anche 12 ore al giorno, mentre i nostri allievi di conservatorio studiano solo qualche oretta. Sono tenaci, hanno un’organizzazione fantastica anche dal punto di vista tecnico, hanno edificato sale stupende per la grande musica.

Il maestro Vitale, suffragato da Giorgio Vidusso (1926-2016), guardando avanti lo aveva già previsto. Lo ricordo asserire: “Il giorno in cui conosceranno la nostra civiltà, noi dovremo fare le valigie”. E ciò è vero, è attuale. Sono stato in Cina cinque o sei volte, in Giappone e in estremo oriente, dove ho notato un profondo desiderio di conoscere la nostra cultura.

Ecco, se almeno il gusto musicale venisse educato correttamente, i nostri giovani non andrebbero a sentire cose orrende. Qualora fossero posti in condizione di conoscerla, essi apprezzerebbero la bellezza della musica colta. Essa è elemento ineludibile nella formazione dell’individuo, eppure non si investe nella scuola. Tuttavia bisogna insistere, poiché ciò dipende dalla politica dell’educazione. Non dobbiamo mai prenderci troppo sul serio. Ma sono le cose che facciamo, che dobbiamo prendere sul serio.

Print Friendly, PDF & Email
Condividi con:
LEGGI TUTTE LE NOTIZIE