Vittorio Alfieri: io e libertà

In Alfieri la visione intellettuale tende a sorvolare la realtà contingente per rimanere sempre uguale a se stessa; in effetti questo è l’unico modo di Alfieri di poter far coincidere le proprie passioni con il proprio desiderio di libertà. Perciò egli cerca nel suo egoismo il contatto con l’insolito e l’occasionale, il diverso per intenderci, allo scopo di preservare la propria interiorità dall’umiliazione di essere solo contro tutti. Alfieri si può definire un illuminista a metà sia per la sua avversione nei confronti dei philosophes favorevoli al dispotismo illuminato sia nei confronti della massa popolare, ancora incapace di costituire un’unità composita viste le strumentalizzazioni operate su di essa dai giacobini. Perciò in Alfieri il desiderio di libertà personale funge, potremmo dire, da principio di identità e non contraddizione, alieno quindi da ogni forzatura operata dall’irrazionalità umana, ma allo stesso tempo, ha valenza ossimorica poiché esso mette l’autore in stretto contatto con le sue pulsioni più intime, quelle che, per esempio, faranno nascere in Foscolo il concetto di nazione. Anche se, nel caso di Alfieri, dette pulsioni, fungendo sempre da stimolo alla ribellione verso il potere costituito, condurranno l’autore alla verità tragica della vita ovvero alla ricerca di uno scopo impossibile a realizzarsi se non per qualche istante prima di abbracciare la morte, come nel Saul. In Alfieri la realtà contingente è filtrata dal proprio umore tale che in lui la vita e la letteratura coincidono; in tal senso per l’autore la libertà è conseguenza unicamente della realizzazione del proprio desiderio di gloria in modo da affermare la perfetta ambivalenza “io-realtà”. Quindi l’uomo può comprendere le proprie potenzialità solo al prezzo della più tragica solitudine che lo oppone a chiunque e, in uno sforzo titanico per affermare la propria quasi “luciferina identità”, anche a Dio.

Biagio Lauritano

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